IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO BACCHETTA IL SINDACO, MENTRE
IL CONSIGLIERE PASQUALE DE MARCO RITORNA SUI SUOI PASSI
di Nunzio Dell'Abate
Dopo le roventi vicende dimissionarie che hanno visto protagoniste quest’estate le Consigliere Federica Esposito e Francesca Longo nonché l’Assessore Antonella Piccinni rispondere a tono,non c’è pace su a Palazzo Gallone.
Il Sindaco non risponde ad una interrogazione rivoltagli dal capogruppo PD in Consiglio Fernando Dell’Abate ed il Presidente del Consiglio protocolla una nota ricordando al Primo Cittadino la normativa del Regolamento Comunale sulle interrogazioni, l’unico mezzo messo a disposizione dei Consiglieri per esercitare la loro funzione di ispezione, di verifica e di sprone dell’azione politico-amministrativa.
Non è dato sapere se il Sindaco ha poi risposto.
Una cosa è certa, forse sfuggita al Presidente del Consiglio a cui le interrogazioni e le risposte giungono per conoscenza, che ben cinque interrogazioni a mia prima firma giacciono inevase dal lontano agosto dello scorso anno.
Intanto il Consigliere Pasquale De Marco, che aveva criticato aspramente urbi et orbi il Sindaco Chiuri (come ripreso anche dal Volantino in un precedente numero) e che al penultimo Consiglio Comunale non si era presentato facendo andare sotto la maggioranza, stante la concomitante assenza di altri due Consiglieri della stessa maggioranza, è ritornato amorevolmente alla corte di Chiuri.
Complice è stato l’ultimo Consiglio, ove si è rischiato che la maggioranza rimanesse di nuovo senza numero legale per deliberare autonomamente ed in palio c’era l’assestamento di bilancio.
Ad inizio di seduta, Consigliere e Sindaco si sono completamente ignorati, poi quando il secondo ha compreso il rischio che si stava correndo, attesa nuovamente l’assenza di due della maggioranza, è iniziato l’approccio di amorevoli sensi. Sfugge quale sia stata l’argomentazione che abbia convinto De Marco a rientrare nei ranghi.
All’attento Lettore non sfuggirà, invece, il clima in cui si lavora in Municipio e lo stato di motivazione dei funzionari e del personale dipendente, con le Commissioni Consiliari che frequentemente saltano per l’assenza dei consiglieri di maggioranza, con la mancanza della benchè minima programmazione ed idea di sviluppo della Città, con una costante navigazione a vista sui problemi ed esigenze della comunità e con un Sindaco che appare sempre più distante dalla gente ed avaro di confronto. Ma al peggio non c’è mai fine…
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La mia colonna
di Alfredo De Giuseppe
Ha fatto scalpore in questi ultimi giorni l’arresto prima a Lecce di 7 persone e poi a Roma di altre 6, oltre a decine di avvisi di garanzia, per l’irregolare assegnazione di case popolari.
A Lecce sono coinvolti ex-assessori, funzionari, consiglieri comunali e vari. Pare che tutte queste persone brigassero in qualche modo affinché gli alloggi venissero attribuiti non in base a punteggi acquisisti ma secondo convenienza politica (scambio di voti) o per favorire semplicemente l’amico/familiare/amante/ che risultava vicino al potente del momento.
Al di là dei fatti di cronaca, ho tentato di capire meglio come funziona l’assegnazione di un alloggio popolare. Sono rimasto meravigliato della differenza di punteggi, regolamenti e tempi di assegnazione fra le varie regioni, addirittura fra i Comuni che in effetti hanno 8.000 regolamenti e canoni differenti (si va dai 12 € mensili di Pescara ai 300 di Milano).
In alcuni casi è necessaria la residenza prolungata, in altri bisogna dimostrare di avere un reddito e in generale le graduatorie sono formate da punteggi complessi da analizzare per chiunque.
In linea di principio sono avvantaggiati nella concessione i soggetti che richiedono l’assistenza dei servizi sociali comunali, quelli che non avendo la possibilità alloggiano presso dormitori pubblici, nuclei familiari con soggetti invalidi e naturalmente famiglie con molti figli o con reddito inferiore alla soglia di povertà, stabilita in genere sotto i 25.000 euro annui.
La cosa più bella è che i bandi escono ogni 4 anni e se uno non vince la lotteria al primo colpo può aspettare anche 8 o 12 anni. Nel frattempo lo stato di necessità è diventato stato di depressione totale. È evidente che, secondo il solito schema italico, brigare con l’amico, raccomandarsi, salire di graduatoria, anticipare i tempi, scavalcare un altro ancora più povero, è il gioco al massacro più empio che si possa immaginare: un gioco violento e assurdo voluto dalla congiunzione astrale di funzionari e politici.
Ma le domande che da anni mi faccio impongono una riflessione sull’essenza stessa di “Casa Popolare”. Perché queste case devono essere costruite in periferia, possibilmente senza servizi, trasporti e negozi? Quale pena punitiva sottende l’attribuzione di una casa popolare? Perché forzatamente brutte dal punto di vista estetico, quasi sempre senza ascensore, senza garage e senza una vita intorno?
E perché per completarle ci si impiega un tempo indefinito, quasi mai inferiore ai dieci anni? Perché costruirle con materiale scadente, dove le infiltrazioni, le muffe e la dispersione energetica sono la regola? Perché l’Istituto Case Popolari è una specie di roccaforte inaccessibile, dove non è possibile avere informazioni di nessun genere?
Ho visto molti Paesi ex-comunisti, dove le case erano tutte uguali, tutte grigie, tutte piccole e miserevoli: in questi ultimi decenni tutte quelle amministrazioni hanno tentato di modificare quello stato di cose con interventi seri, organizzati e ben studiati (anche con abbattimenti).
I quartieri delle ex case del popolo son diventati dei bellissimi quartieri, vivaci, colorati, pieni di cose e di idee. In Italia invece, in quasi tutti i Comuni, questi palazzoni sono rimasti l’emblema della solitudine, della povertà, dell’abbandono.
Nel silenzio generale e soprattutto con un approccio al problema completamente errato, a cominciare dai tecnici, dai sociologi fino ai cittadini comuni, i benpensanti proprietari di belle case e villette. Se io, da bambino, fossi stato “deportato” da un centro storico, stratificato nella sua storia millenaria, in una di queste case lontane da ogni cosa, non avrei avuto il piacere di integrarmi con la stessa società che in definitiva mi aveva discriminato, allontanato, destrutturato nella mia quotidianità.
La povertà economica è divenuta immediatamente povertà culturale e sociale: mi chiedo se sia stato un progetto ricercato (punitivo dicevo), voluto da scelte ben precise oppure nato nell’insipienza di un tempo di necessità e poi mai rivisto per pigrizia o per semplice gioco delle parti.
Non so rispondere e non oso chiederlo neanche agli abitanti delle varie case popolari che in genere hanno le scatole piene di rispondere a quesiti scontati, sentire discorsi retorici e promesse elettorali. La realtà purtroppo è una sola: queste case popolari hanno distrutto le nostre città, hanno degradato le periferie, senza risolvere davvero i problemi dei suoi abitanti, aggravandoli anzi nella sofferenza quotidiana, nella mancanza di bellezza, serenità e armonia.
Queste tre cose erano l’essenza della casa nella testa di ognuno di noi: la mafiosità italiana, l’eterna bugia consolatoria ha prodotto invece le nostre periferie, che ormai non sono fuori città, ma sono la città, nell’infelicità di molti.
di Giovanni Scarascia
Psicologo Clinico Dinamico
Consulente esperto nella risoluzione pacifica dei conflitti
La mia esperienza internazionale nel campo dell’educazione mi ha portato ad interrogarmi e formarmi su alcuni aspetti fondamentali del nostro tempo che , tragicamente, incidono sulla formazione, sull’equilibrio e quindi sul benessere delle nuove generazioni.
Da poco rientrato in Italia, mi è sembrato di capire che il sistema scolastico in generale non riesca a fornire le necessarie risposte a domande del tipo: “ Cosa serve ai nostri ragazzi per vivere e godere della loro vita nel mondo? Quali competenze devono affinare per essere dei cittadini attivi e positivi? Come il sistema famiglia può favorire questo processo?”
E ancora “Siete soddisfatti di ciò che si insegna nelle scuole? Non credete che manchi qualcosa? Che si dovrebbe insegnare l’empatia come la storia? La gestione delle emozioni come la geografia? L’ascolto come la grammatica? La Scuola non dovrebbe anche insegnare a parlare in pubblico? A gestire le relazioni? A prendere decisioni assertive? A mediare i conflitti e ad insegnare a vivere in pace?”
Di solito avverto nei ragazzi una profonda mancanza di punti di riferimento, una profonda mancanza di strategie comunicative e di competenze emotive, quelle che fondamentalmente ti permettono di relazionarti con l’Altro, e di non vederlo come un forziere da svuotare o un avversario da distruggere, ma come un compagno di viaggio. Quelle, in poche parole, che ci permettono di mettere in pratica azioni di pace e non reazioni di guerra.
Professori, Dirigenti scolastici e genitori, mi hanno affidato bambini e adolescenti dicendomi
“è che ha un problema...”. Io, gentilmente, rispondo e ricordo che il ragazzo è semplicemente il risultato delle azioni degli adulti. E che il “problema” non è solo suo, ma di tutti.
Lo studio fatto in Mediazione e Risoluzione Pacifica dei Conflitti mi ha permesso di percepire un livello di conflittualità molto alto, e veramente poche caratteristiche per risolverlo pacificamente, sia dal punto di vista personale che strutturale.
La Pace è una scelta consapevole, difficile, che ha bisogno di un particolare ambiente personale e interpersonale per “succedere”. E dipende soprattutto dalle risorse che le persone sentono di avere (dentro e fuori) e dalla qualità di relazione con l’Altro.
Il Conflitto non è la guerra, non è la violenza. È un Punto nel Tempo e nello Spazio dove si incontrano “Diversità”. La guerra e la violenza sono una risposta di risoluzione. Il Conflitto è Incontro. Nulla più.
Per questo credo che sia necessario, per far “succedere la Pace”, una profonda riflessione su come stiamo propiziando la guerra, sul perchè la violenza e la prevalicazione sull’Altro sia spesso la prima reazione scelta, e non stupirci quando le nuove generazioni si comportano in maniera “incomprensibile”. I bambini imparano da ciò che vedono, da ciò che vivono, non da quello che gli si dice.
E noi , invece ,progressivamente abbiamo insegnato loro a farsi la guerra, a competere con l’Altro per stabilire presunte superiorità.
La mia esperienza in Colombia, nel campo educativo, mi ha permesso di strutturare una mia proposta, diversa rispetto al curriculum ordinario offerto dalle scuole , che credo possa essere utile anche in Italia ed in particolare spero nel mio Salento.
Il Programma “Epicentro di Pace” mira ad affrontare il problema della violenza e dell’esclusione, vuole sensibilizzare i ragazzi e gli educatori ad un differente atteggiamento rispetto alla funzione dell’educazione e al coinvolgimento delle famiglie. È un intervento strutturato e temporalmente determinato che intende arricchire la forma di gestione dei conflitti all’interno delle scuole.
Che vuole insegnare a fare la Pace.
Vuole, inoltre, creare un spazio fisico di ascolto e riconciliazione all’interno degli istituti, dove i ragazzi possano apprendere una forma diversa di dirimere i conflitti, di vedere l’altro, di intendere le propie responsabilità e le propie libertà, che soprattutto perduri al termine dell’intervento stesso.
Dopo più di un decennio all’estero, ho deciso di ritornare in Italia .
Mi auguro di essere di aiuto alla mia comunità di origine e di realizzarmi professionalmente.