Le barchette di carta di Aboubacar

Aboubacar è seduto sulla sua sedia, è un po’ stanco perché il lavoro di muratore è faticoso ma è sempre contento di trascorrere del tempo con i propri operatori e anche oggimi invita a tenergli compagnia per “parlare un po’”.

È un ragazzo curioso e perspicace che adora discorrere del più e del meno ed esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento. Dallo scorso 28 giugno sul suo comodino espone con orgoglio le barchette di carta che aveva preparato per la manifestazione antirazzista che è stata organizzata per le strade di Lecce e a cui ha partecipato insieme a una delegazione di rifugiati ospiti dello Sprar del Comune di Tricase e agli operatori di Arci Lecce.

Contemplando le barchette la nostra conversazione vira sui recenti fatti che vedono le barche vere, quelle delle Ong, colme di uomini donne e bambini salvati dai naufragi nel Mediterraneo, essere respinte e bloccate in mare.

La sera del 28 giugno l’ho visto camminare nel corteo della manifestazione e sostenere con fierezza lo striscione che chiedeva la riapertura dei porti italiani. C’era tanta gente in quel corteo e Aboubacar si sentiva parte di quel gruppo di persone che manifestavano insieme a lui per difendere il principio di solidarietà. Mentre parliamo della manifestazione improvvisamentesi fa serio ed emerge sul suo volto quell’espressione cupa e mortificata che ogni operatore ormai riconosce quando i rifugiati parlano di Libia. Fa un po’ di silenzio, guarda per terra e poi mi dice semplicemente che “non è giusto”, “non è buono”.

Lui che ama argomentare le proprie tesi e arricchirle di particolari, sulla Libia si contiene, sembra voler esplodere ma il dolore del ricordo delle esperienze atroci che ha vissuto nei campi di detenzione è troppo e penso provi vergogna per la disumanizzazione che ha vissuto nel suo passato. Oggi non vuole parlare della Libia, ci pensa in silenzio ma non mi dice nulla forse perché vorrebbe non ricordare di essere stato uno schiavo, e vorrebbe che io lo conoscessi solo per l’uomo coraggioso che ha dimostrato di essere e che si afferma ogni giorno con decisione nella società che lo ha accolto.

Aboubacar oggi non ne parla, ma negli ultimi mesi l’argomento Libia è emerso sempre più spesso, sia nelle discussioni di gruppo, che nei colloqui individuali e ha diffuso angoscia e paura tra i rifugiati dello Sprar di Tricase. Si tratta di un gruppo eterogeno per provenienza, lingua, cultura e religione, ma accumunato per la maggior parte dall’aver vissuto l’esperienza della Libia, ovvero delle torture fisiche, delle minacce psicologiche e delle privazioni del sonno e del cibo.

Spesso durante i corsi di alfabetizzazione, dedichiamo alcune lezioni agli approfondimenti sul loro status di titoli di protezione internazionale. Ultimamente abbiamo parlato della Convenzione di Ginevra del 1951, ricordando ai nostri ospiti che la Libia non ha mai firmato tale Convenzione e che per questo motivo non sarebbe potuta essere considerata un paese di accoglienza per i rifugiati. In questi giorni però leggiamo di un’Europa che costruisce muri, che respinge e che diniega, e soprattutto di un’Italia che considera la Libia un “porto sicuro” e le sue prigioni, dove sono stati sodomizzati e resi schiavi,centri d’accoglienza “all’avanguardia”.Ciò spaventa e angoscia molto i rifugiati dello Sprar di Tricase, che quotidianamente si informano e prendono coscienza dei cambiamenti politici che sono in corso nel nostro paese.

E proprio loro, la settimana scorsa hanno portato alla nostra attenzione l’iniziativa lanciata da Libera e sostenuta anche da Arci nazionale, da Legambiente a dall’ANPI, “una maglietta rossa per fermare l’emorragia di umanità”.

Insieme abbiamo letto l’appello e abbiamo spiegato loro perché noi operatori Arci e tanta altra gente in Italia intendevamo sposare questo piccolo gesto per dimostrare solidarietà alle vittime dei naufragi.

L’appello recitava:

Una #magliettarossa per #fermarelemorragia di umanità

indossiamo una maglietta rossa per un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà

Rosso è il colore che ci invita a sostare. Ma c’è un altro rosso, oggi, che ancor più perentoriamente ci chiede di fermarci, di riflettere, e poi d’impegnarci e darci da fare. È quello dei vestiti e delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il mare riversa sulle spiagge del Mediterraneo. Di rosso era vestito il piccolo Aylan, tre anni, la cui foto nel settembre 2015 suscitò la commozione e l’indignazione di mezzo mondo. Di rosso erano vestiti i tre bambini annegati l’altro giorno davanti alle coste libiche. Di rosso ne verranno vestiti altri dalle madri, nella speranza che, in caso di naufragio, quel colore richiami l’attenzione dei soccorritori.

Muoiono, questi bambini, mentre l’Europa gioca allo scaricabarile con il problema dell’immigrazione – cioè con la vita di migliaia di persone – e per non affrontarlo in modo politicamente degno arriva a colpevolizzare chi presta soccorsi o chi auspica un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà. Bisogna contrastare questa emorragia di umanità, questo cinismo dilagante alimentato dagli imprenditori della paura. L’Europa moderna non è questa. L’Europa moderna è libertà, uguaglianza, fraternità. Fermiamoci allora un giorno, sabato 7 luglio, e indossiamo tutti una maglietta, un indumento rosso, come quei bambini. Perché mettersi nei panni degli altri – cominciando da quelli dei bambini, che sono patrimonio dell’umanità – è il primo passo per costruire un mondo più giusto, dove riconoscersi diversi come persone e uguali come cittadini.

E oggi ne ho parlato di nuovo con Aboubacar, gli ho raccontato del perché avessimo indossato quelle maglie rosse e mentre osservava la nostra foto di gruppo sul mio cellulare - in cui siamo stretti dietro la nostra bandiera e sorridiamo - ho strappato un sorriso anche a lui che con la sua solita fierezza e il suo sguardo vispo fisso nei miei occhi mi ha detto “gli italiani sono molto buoni!”.

 

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