La Beat Generation: più che un modo di esserci

Dietro questa denominazione si nascondono, anzi si nascondevano, sette volti di persone, caratterialmente diverse ma tenute insieme da un sentimento comune: l’amore per la musica. Sono sette Tricasini doc e si chiamano Alfredo Panarese, Marcello e Stefano De Carlo, Cosimino Papa, Antonio Cosi, Antonio Rizzello, Giovanni Maggiore (variabile indipendente di un gruppo omogeneo che non si è dato un tastierista stabile). Dicevo si nascondevano perché, prima di qualche sera fa -quella della loro apoteosi e della loro consacrazione al grande pubblico- le loro uscite erano state sporadiche e, per lo più, frutto di insistenti richieste da parte di amici ai quali non riuscivano ad opporre un secco rifiuto. Stavano bene così, felici di incontrarsi fra di loro per dare anima ai loro strumenti musicali e immortalità e voce alle loro canzoni, alle canzoni dei loro anni ruggenti. Cosa dire di loro se non, gli anni passano ma le passioni restano. Può essere sintetizzata e giustificata così la presenza di quel manipolo di aitanti ultra sessantenni accomunati dalla passione per la musica. Concepiti nei primi anni del secondo dopoguerra, -probabilmente dopo una serata allietata da uno swing suadente e malandrino- allevati dalle loro mamme con biberon ricolmi di rhythm and blus, svezzati con pastine al rock and roll e fatti crescere con panini farciti al rock di un’Italia che cercava di mettersi alle spalle un passato alla Lili Marleen, questi magnifici sette, meglio cinque + due (i due Antonio sono più giovani), mantengono intatto nel tempo l’humus del terreno in cui hanno affondato le radici della loro crescita e della loro formazione. Lo fanno con la Beat Generation, la loro band, riproponendo canzoni che hanno caratterizzato un periodo storico ben preciso e accompagnato importanti momenti di crescita letteraria, artistica e culturale di questo nostro Paese. Un periodo in cui la musica, forse in virtù di una ricca produzione discografica fatta passare attraverso la radio, occupò significativi spazi di accoglienza e sfociò in quella lunga stagione di successi passata alla storia con il nome de I Favolosi Anni ‘60. Di quegli anni, caratterizzati da forti fermenti culturali, i nostri si portano appresso un nome e un bagaglio di bei ritmi e belle canzoni che stanno alla base del loro esistere. E, a proposito del nome,nessuna analogia con qualsivoglia movimento, solo il desiderio di identificarsi in un genere musicale che hanno sempre amato e a cui sono rimasti visceralmente legati. Così legati da custodirlo innanzitutto con il loro rigoroso impegno fatto di prove e riprove, di cura dei particolari, quasi in segno di rispettoso ringraziamento verso chi quella musica ci ha donato e ci ha invitato a sognare. Ascoltarli diventa un ritrovarsi in quella stagione, sentirla come se non fosse mai finita. Stanno nello spettacolo e si divertono con l’entusiasmo dei loro vent’anni passati solo anagraficamente, si che le loro esecuzioni non sono un ritorno al passato ma un invito a riviverlo. Ed è così che ti ritrovi cullato nei tuoi pensieri, quegli stessi che, un tempo, ti portavano a rincorrere i sogni e ti aprivano il cuore alla speranza. Sono le emozioni di un sabato di fine estate a Tricase Porto, luogo simbolo di quegli anni. Anch’esso, malgrado sia stato costretto a rifarsi il look per reggere le sfide dei tempi nuovi, quella sera ha mantenuto integro il suo fascino antico e ci ha restituito, da par suo, visioni sempre vive e reali. Tante sensazioni sono serpeggiate per circa tre ore tra il folto pubblico e qualche viso si è discretamente rigato. Non per la nostalgia ma per la gioia di una serata che ha richiamato anche tanti giovani. La loro presenza e la loro attiva partecipazione è stato un ulteriore arricchimento, una sorta di scommessa su di un futuro a tinte più chiare. È successo grazie alla Beat Generation e... scusate se è poco.

di Michele Sodero

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