di Pasquale FERRARI

23 maggio 1992. Capaci. Uno degli eventi più tragici e dolorosi della storia italiana. L'attentato, che ha portato alla morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, ha rappresentato un momento di svolta nella lotta alla mafia, diventando simbolo della battaglia per la giustizia e la legalità.
Mafia, e alla stessa stregua pure camorra, ‘ndragheta e sacra corona unita, così come sono denominate territorialmente i principali fenomeni criminali italiani, è un termine che indica un tipo di organizzazione delinquenziale retta da violenza e omertà. Le analisi moderne del fenomeno considerano “le mafie”, prima ancora che organizzazioni criminali, "sistemi di potere" fondati sul consenso della popolazione e sul controllo sociale che ne consegue.
La guerra alla mafia condotta dallo Stato, quindi, viene combattuta quotidianamente anche da ogni singolo cittadino per bene, che non può non sentirsi coinvolto in essa anche solo emotivamente, proprio per sradicare – laddove presente – e per evitare che attecchisca quel sentimento di omertà dal quale l’organizzazione trae linfa vitale.
È per questo che le eclatanti affermazioni dello Stato, come la cattura, in ultimo, del superlatitante Matteo Messina Denaro, sono vissute con accentuato sentimento partecipativo ad ogni latitudine del Paese.
Localmente, invece, accade che alla “vicinanza” che si avverte per le dinamiche di questa lotta, sia di costernazione e dolore in occasione di tragici avvenimenti che – come detto – di comprensibile entusiasmo per i successi dello Stato, si contrappone la “lontananza” fisica da tali fenomenologie.
Il mancato attecchimento di queste alla nostra realtà è verosimilmente figlio della radicata cultura della legalità della nostra gente, forse fin anche maniacalmente gelosa delle proprie tradizioni e del proprio territorio: ne deriva, quasi naturalmente, una attiva e proficua collaborazione tra popolazione ed istituzioni/forze dell’ordine, che rende la società stessa impermeabile ad ogni tipo di “infiltrazione”. Il solco è tracciato.
 «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini», questo il testamento morale di Giovanni Falcone. Chiarissimo e bellissimo come il suo sorriso. 
Il pensiero era pure quello di Antonino Caponnetto, considerato non a torto un altro degli eroi della lotta alla criminalità organizzata in Italia, il quale diceva che la mafia si combatte prima di tutto nelle scuole.
 «La mafia teme la scuola più della giustizia, l'istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa». Una classe, infatti, altro non è che una piccola società, guidata dall’insegnante al quale spetta l’arduo compito di educare.
“Ex ducere” ovvero “tirare fuori”. Tirar fuori i cittadini di domani, fornendo loro gli strumenti per comprendere la società e per fare, dunque, scelte consapevoli.

 

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