di Carlo Errico

Un conoscente mi ha chiesto cosa ne pensassi di quanto accaduto al pubblico ministero leccese arrestato.

Spiego per chi non ne fosse informato e lo faccio per sommi capi, nei limiti di quanto qui interessa. Un magistrato, svolgente funzioni di pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Lecce, è stato arrestato perché, avvalendosi dei poteri derivanti dall’esercizio delle proprie funzioni, avrebbe chiesto ed ottenuto favori economicamente apprezzabili e sessuali (acquisto di una grossa barca da un privato a prezzi vantaggiosi;

battute di caccia; corsie preferenziali per controlli medici; aiuto per il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per due giovani candidate; sui favori sessuali c’è poco da chiarire) in cambio di scelte di indagine e processuali tali da favorire i soggetti (o loro clienti) che quei favori gli concedevano e che erano da lui stesso indagati.

Alla domanda ho sbrigativamente risposto manifestando il senso di fastidio e dispiacere per una vicenda che, da qualunque angolo si guardi, mostra tutto il suo squallore.

Ma ora provo a dare a quell’amico una risposta più meditata.

Quanto accaduto e in corso di accertamento tocca l’immaginario collettivo in termini assoluti. Pensiamoci bene. Ci si raffigura un centro di potere incarnato in una persona fisica che si circonda di amici compiacenti  e necessariamente devoti perché dipendono dalle sue scelte processuali e un giorno qualsiasi si alza e va a caccia al capriolo; poi si concede un bel giro in barca, in compagnia di belle avvocatesse molto più giovani di lui pronte a concedersi; se, data l’età, c’è qualche acciacco o prestazione non adeguata, ecco pronti i medici a visitarlo subito nei migliori centri specializzati ed una punta di Viagra, che non guasta!

Ed ho capito che dietro alla domanda del conoscente c’era tutto questo.

C’era la rabbia del cittadino onesto lavoratore quale egli è, che ha dedicato la sua vita a metter su famiglia, a sistemare i figli e a non naufragare nella sua attività di impresa e vede aprirsi uno squarcio su favori dei potenti e corsie preferenziali.

E c’era il senso di dispiacere e fastidio da parte mia perché una situazione come quella descritta, confinata nell’alveo del possibile immaginato, aveva varcato la soglia molto più concreta del probabilmente accaduto fino a prova contraria (faccio presente che quel magistrato, insieme ai suoi correi, è stato sottoposto a misura cautelare, per lui in carcere, e tale misura è per legge legata alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ed al pericolo che, se lasciato libero, possa commettere altri reati, inquinare le prove o fuggire).

A questo punto cerco una strada per chiarirmi le idee.

L’accomodamento per ottenere ciò che altrimenti non si avrebbe il diritto di avere, o il facile superamento di un ostacolo sul percorso professionale, sono e continuano ad essere comportamenti che assai facilmente sconfinano nel campo dell’illecito penale: e questo deve rimanere un monito, per tutti.

Il “sistema” ha al suo interno meccanismi di autodifesa pronti ad agire: quel magistrato è stato arrestato su richiesta di un suo collega pubblico ministero e su ordinanza emessa da altro suo collega giudice per le indagini preliminari, i quali hanno valutato gli indizi emersi a suo carico.

Ci sarà un Tribunale del Riesame, composto da tre magistrati, che sicuramente verrà chiamato a vagliare la bontà di quegli indizi. Poi seguirà il processo penale.

Intanto si muoverà l’organo di autogoverno dei giudici, cioè il Consiglio Superiore della Magistratura (che sarà compulsato su sollecitazione di altri magistrati), il quale deciderà se sospendere dalle funzioni giudiziarie quel pubblico ministero e se rimuoverlo dalla carica per avere abusato dei suoi poteri.

E ci sono le conseguenze per gli altri coinvolti, evidentemente intuibili in termini di processo penale da subire, eventuale condanna, ricaduta in termini di immagine personale e professionale.

Su queste consapevolezze poggio le ultime considerazioni.

Il codice penale contiene un intero titolo dedicato ai delitti contro l’amministrazione della giustizia: ben tre capitoli per un totale di circa trenta articoli tutti dedicati ad ogni profilo attraverso il quale può risultare compromessa la funzione giudiziaria dalla sua formazione al suo svolgimento e fino alla sua esecuzione.

Reati che possono essere commessi da pubblici ufficiali e da privati.

Si, perché si intralcia la giustizia anche rendendo una falsa testimonianza o favorendo taluno ad assicurarsi il prodotto, il profitto o il prezzo di un reato. E poi vanno aggiunti tutti gli articoli che puniscono i pubblici ufficiali (e il magistrato lo è) che abusano del potere che gli deriva dalla funzione svolta per tornaconto proprio o altrui.

L’ordinamento ha, dunque, da sempre necessità di prevedere e reprimere con pene i comportamenti che minacciano e mettono in crisi il funzionamento corretto e imparziale della macchina giudiziaria.

Quella macchina che ogni giorno in Italia viene messa in movimento da un esercito di oltre novecento magistrati ed un ancor più cospicuo numero di operatori (cancellieri, avvocati, ecc.) che svolgono onestamente il proprio lavoro e non si sognano neppure di abusare del loro potere. Quella macchina che prevede al suo interno strumenti per far capire che qualcosa non va: una spia rossa accesa sul cruscotto che impone di aprire il motore, trovare il guasto e rimuoverlo.

E se tutto ciò è previsto significa che quei comportamenti illegali non sono la regola, che non tutto funziona per favori e raccomandazioni, che la strada del delinquere, anche con il colletto bianco (o con la pettorina sotto la toga), non è quella giusta da seguire perché può portare e compromettere in maniera irreversibile le proprie scelte di vita.  

Perché non è la regola uccidere, rubare, violentare e se qualcuno, purtroppo, lo fa non significa che tutti uccidono, rubano o violentano. Perché le corsie preferenziali hanno una funzione fondamentale solo per garantire il soccorso o la prevenzione e per assicurare di arrivare anche a chi è in ritardo non per sua colpa.

E perché quanto accaduto sia un monito, come solo può essere in questo momento di verità non ancora processualmente accertata, per scelte di legalità che esse sole premiano e rasserenano.

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