di Alessandro DISTANTE
Estate nuova, vecchi problemi. Su questo numero ben due pagine parlano di un vecchio problema: gli incendi estivi. Al di là, per un momento, dalle responsabilità dei singoli che devono essere individuati e severamente puniti, vi è un problema più generale: l’abbandono delle campagne.
Dopo la batosta della xylella, della quale qualcuno dovrà pur rispondere, è proseguito il progressivo abbandono dei campi. Tante le ragioni: da una proprietà fin troppo parcellizzata alla crisi dei mercati; dalla sempre più grave siccità alla mancanza di manodopera; dalla politica di disincentivazione comunitaria per alcune coltivazioni alla mancanza di reti cooperativistiche; dagli ingiusti ed ingiustificati balzelli dei consorzi di bonifica alle limitazioni a qualsivoglia intervento di recupero funzionale delle costruzioni agricole. L’elenco potrebbe continuare ma, certo, il risultato è quello che è davanti agli occhi di tutto. Gli ulivi, intanto, mostrano segni di rinascita e, malgrado le autorevoli voci che spengono ogni possibilità, la speranza è l’ultima a morire!
Estate nuova, vecchi problemi. Immancabile la questione delle infrastrutture. Il traffico, cresciuto a dismisura, pone problemi di viabilità e di parcheggi. La poca propensione a parcheggiare lontano, magari in parcheggi di scambio e da lì prendere la navetta, porta a congestionare le marine. E’ un fenomeno che riguarda molte marine e i centri storici di molti paesi. La questione è rilevante per un Comune, come Tricase, dove da decenni manca una programmazione e pianificazione urbanistica con conseguenti limiti e divieti. Lo sforzo dell’Amministrazione De Donno di reperire, con la collaborazione (interessata) dei privati, aree da destinare a parcheggi, non si è tradotta, al momento, in nulla di concreto. La speranza è che qualcosa nel frattempo avvenga, nella speranza che non si debba vivere di speranza perché “la speranza è l’ultima a morire”, ma è altrettanto vero che “chi di speranza vive di speranza muore”!
di Alessandro DISTANTE
Scrivo questo editoriale con grande difficoltà. Come si fa a scrivere in un giornale locale quando il mondo è sconvolto da tante assurde guerre; quando troppi bambini muoiono uccisi da missili e da droni? Come si fa a scrivere e cercare di animare il dibattito cittadino, se poi, un po’ più in là, ci sono ben altri problemi e ben altri drammi?
Eppure mi hanno insegnato che la lotta per un mondo migliore e la battaglia per la giustizia e quindi per la pace passa attraverso ognuno di noi. Mi hanno insegnato che la pace si costruisce ogni giorno e in ogni luogo. A partire dal nostro territorio e dal nostro quotidiano.
Ed allora: da noi a che punto siamo con la costruzione della pace o, almeno, della pace sociale e dello stare bene insieme?
Le cronache ci parlano di un’Italia dove un brigadiere dei Carabinieri, alla vigilia del collocamento a riposo, perde la vita per inseguire due suoi coetanei; oppure ci tocca sentire che, a pochi chilometri da Tricase, un giovanissimo figlio prende un’ascia -che da piccolo gli era servita per stare in gruppo con gli amici e per educarsi alle regole- ed ammazza la madre; ci fa arrabbiare una Regione Puglia che, per beghe interne alla stessa maggioranza, non riesce ad approvare una Legge sul Terzo Settore da tutti attesa; e ci viene da gridare all’assurdo e al paradossale di un nuovo consigliere regionale eletto nelle file di una lista di maggioranza ma che entra in Consiglio sedendosi all’opposizione. Il pensiero va, infine, al perverso intreccio tra affari e politica che, al di là delle eventuali responsabilità penali, mette in luce lo scambio di favori e di voti, alla faccia della politica disinteressata e al servizio del bene comune.
Nella carrellata che stiamo facendo con interviste a Partiti e Movimenti tricasini la denuncia di fondo è di mancanza di una progettualità e di una visione su dove si voglia andare: molti a ripetere che si fanno interventi spot senza una idea generale e senza idee per il futuro.
Certo, di questi tempi, può sembrare difficile se non addirittura inutile avere una visione del futuro quando, intorno, la forza delle armi sembra l’unica protagonista, quando un popolo intero viene sterminato o quando uno squilibrato presidente gioca a minacciare e ad ammanettare e incarcerare immigrati; saranno forse irregolari ma sono sempre persone!
Eppure non è possibile arrendersi; la pace si costruisce dal basso, anche a Tricase. Magari a partire dall’Estate che comincia oggi (almeno come stagione del calendario): saremo arricchiti da quelli che verranno a trovarci, saranno figli, amici, parenti e tanti altri che, magari presentando un libro, ci faranno trascorrere belle serate e ci riporteranno all’idea, che è alla base di ogni altra idea, che tra persone si dialoga, ci si confronta, si riflette e ci si conosce e che nel mondo c’è spazio per la forza del pensiero e non per la forza delle armi, a partire, perché no, da casa nostra, da Tricase.
Risultato: Il deserto democratico
di Alessandro DISTANTE
Come fare a non mettere in collegamento il flop referendario con le cronache delle inchieste giudiziarie di questi giorni che hanno interessato la Puglia?
La disaffezione alle urne non è un fatto nuovo, ma una pericolosa tendenza che tende, purtroppo, ad allargarsi. Colpa dei cittadini? Certamente, ma non solo e non principalmente. I cittadini, infatti, non sono persone alle quali si può chiedere di rimanere indifferenti di fronte ad una politica che è sempre più lontana dai lavoratori veri e sempre più vicina agli speculatori, sotto veste di faccendieri, pronti a sostenere un cavallo su cui puntare, poco importa l’appartenenza allo schieramento, per poi presentare il conto.
Sarà colpa del venir meno del finanziamento pubblico dei partiti, sarà il venir meno proprio dei partiti, sarà il crescere e l’affermarsi di una cultura del tornaconto o, per andare ancora più a fondo, il venir meno del senso della comunità, ma certamente non si possono fare appelli al voto se gli appelli non vengono accompagnati da condotte esemplari di servizio al bene comune.
Referendum promossi pur sapendo che il rischio di insuccesso è elevatissimo, con il risultato di radicalizzare posizioni non condivisibili ma che, ora, sulla scorta dei risultati, appaiono più forti e pienamente legittimate dalla volontà (o non volontà) popolare.
Tanto per non andare lontano, non è di poco conto osservare che la campagna referendaria non ha visto a Tricase nessuna iniziativa pubblica o, per dirla con parole ormai fuori moda, neanche un comizio. Che tristezza quel palco montato in Piazza Pisanelli e rimasto vuoto per l’intero periodo!
Ma la colpa di chi è? Dove sono i partiti e dove sono i nostri parlamentari (ma chi sono?) che sui temi referendari avevano –almeno si spera- un’idea? Perché non sono venuti a spiegare i contenuti del referendum, la loro posizione, perché votare SI’ oppure perché votare NO oppure –al limite- perché non andare a votare?
Niente e nessuno. Partiti scomparsi, politici assenti ed alcuni addirittura impegnati non nelle Piazze ma a concludere accordi di convenienza con chi, in cambio di propri tornaconti privati, è in grado di garantire appoggi elettorali e finanziamenti diretti o indiretti.
In tutto questo –per non cadere in un comodo e pericoloso qualunquismo- la risposta è una sola: uno sforzo maggiore di eroismo civico. Malgrado tutto, occorre più partecipazione, che non è soltanto andare a votare, ma seguire con attenzione e intelligenza quello che accade ed avere il coraggio di prendere posizione.
Non c’è alternativa per non finire come negli Stati Uniti, da sempre modello di democrazia, dove i legami e condizionamenti (o ricatti) tra politici ed imprenditori sono ormai penosa cronaca di tutti i giorni.
di Alfredo De Giuseppe
Un giovedì normale, il 4 giugno del 2025, Gigi De Francesco decide di chiudere la storica edicola di Piazza Pisanelli a Tricase. Avviata dal padre Vito, appena finita la seconda guerra mondiale, è rimasta ininterrottamente aperta per 80 anni, sempre nello stesso luogo, un sottoscala del campanile del Convento di Domenicani. Uno spazio angusto, piccolo, sempre strabordante di riviste, giornali e ora anche di giocattolini.
La sua chiusura va ben oltre la fine di un’epoca, detta asetticamente come si potrebbe dissertare di un qualcosa fuori moda, della fine della carta stampata, dell’inizio ufficiale dell’era dell’Intelligenza Artificiale. No, va alla radice di un modus vivendi, di una socialità, di una gentilezza dell’essere che ci appaiono lontani, sfumati nel tempo, come gocce disperse nell’aria.
Nel 2000, un’epoca che ci appare già remota, sul libro “Ore 8, sotto l’orologio” così scrivevo in premessa:
“Da una seria ricerca socio/linguistica si è scoperto che l’aggettivo più usato a Tricase è “normale”. Sul concetto di normalità potremmo scrivere a lungo: non giungeremmo, probabilmente, ad una conclusione accomodante. O forse si, basta accettare il tutto come banale, come consuetudine e l’atteggiamento più controverso, diventa normale.
Per questo ho eletto un unico luogo come il crogiolo della normalità tricasina. Alle otto di ogni mattina un caffè veloce, veloce come si prende solo in certi paesi del Sud Italia. (In piedi, come necessità, senza tavolini, senza colazione. Anni fa i proprietari dei due bar del centro pensarono bene di mettere delle sedie e dei tavoli e si adeguarono a quella cosa chiamata servizio: gli incassi non aumentarono di una lira)... C’è un convento dei domenicani e un campanile, sul quale circa un secolo fa misero un bell’orologio, segno della meccanica che avanzava. L’orologio funziona ad intermittenza, anni si e anni no. Di fronte c’è un’unica torre, annessa al castello dei Gallone. Il torrione è oggi sede della Pro-Loco e il castello del Municipio. Alle otto, dicevo, caffè e giornale, commenti su tutto, grida e cattiverie, notizie sempre fresche. L’incontro è sotto l’orologio: deve essere sembrato, nell’ultimo secolo, un buon sistema per darsi un appuntamento, neutro e preciso, maschilista. Senza donne, impegno e ostentazione.
(…) Da allora ho sempre pensato che per fare il regista, il pittore o lo scrittore, si dovesse avere una quotidianità come la mia. La bella quotidianità, quella che oggi osservo negli inconsapevoli personaggi delle otto, sotto l'orologio. Gente che ogni mattina si sveglia con l'unico obiettivo di andare nello stesso posto in cui ci va da decenni, va ad incontrare le stesse persone, con le quali non è legato da un vincolo di amicizia: al massimo ci si può offrire un caffè e commentare in piedi i fatti del giorno. Se un avvenimento è davvero importante o divertente va di voce in voce, e, senza che si sappia chi l'abbia detto, è già a conoscenza di tutti. Comincia così il giorno per chi si è costruito, per necessità o virtù, un mondo preciso, scandito da orari e persone, arricchito dalle novità che difficilmente riescono a scalfirlo.
Il giornalaio
La prima foto spetta di diritto a Gigi De Francesco e al suo collaboratore Amadeo, carabiniere in pensione. Gigi ha ereditato l’edicola dal padre, il mitico Vituccio De Francesco. Se “sotto l’orologio” esiste è anche per merito suo. Un’edicola che più piccola non si può, ricavata in un buco del convento, largo non più di un metro per due. L’edicola per eccellenza, l’edicola pura, dove non si vende neanche una matita, solo giornali e allegati (appesi dove capita e spesso nascosti sotto le macerie). Gigi ha, ogni mattina, la classica attenzione dell’edicolante sotto casa, da commedia anni sessanta, commenti bonari e saluti cordialissimi. Ben alzato, Gigi.
E io davvero ho inseguito per anni quella quotidianità: volevo un giornale, quattro chiacchere con i soliti noti, un caffè veloce, un pasticciotto artigianale, le zeppole a marzo e il gelato ad agosto, due politiche diverse e i soldi per non strafare. L’ho cercata e trovata per brevi periodi, poi sempre sopraffatto da altri impegni, altri progetti, altre persone, altre vite.
Ora Gigi chiude davvero. Ha 75 anni e qualche acciacco di troppo. Ci incontreremo al bar, forse, o una volta con i suoi amici in pizzeria a sfotterci ancora un po’, ma l’impressione, mia e sua, che sia tutto alquanto triste, non più rivedibile, rivisitabile, ricominciabile.
di Alessandro DISTANTE
Il 2 giugno si celebra la Festa della Repubblica e, per tradizione, a Roma, su via dei Fori Imperiali, si svolge la parata con le Forze armate che sfilano al cospetto dei vertici dello Stato.
Per questo, il 2 giugno passa anche come Festa delle Forze Armate. Eppure, sarebbe bello che da quest’anno la parata fosse (anche) delle Forze Disarmate. Troppo forte è il dolore per quello che di orribile sta accadendo a Gaza e per quello che di crudele sta accadendo ormai da troppo anni in Ucraina.
E’ vero: le nostre Forze Armate sono a presidio dello Stato e vengono impiegate solo per interventi di difesa e non certo di aggressione e questo è garantito dalla nostra Costituzione, ma è altrettanto vero che, nel giorno della Festa della Repubblica, dovrebbero trovare spazio anche Forze che, pur esse, difendono lo Stato dai conflitti interni. Per dirla con il nuovo Papa, le forze che favoriscono una pace disarmata e disarmante.
Sarebbe veramente disarmante se a Roma sfilasse l’esercito dei volontari, quelli che, senza colpo ferire, leniscono le ferite delle tante povertà, vecchie e nuove, che sono alla base di tante conflittualità quotidiane che, talvolta, si traducono in tragedie.
Sarebbe una bella dimostrazione che la difesa della Patria, come ha detto la Corte Costituzionale, è “ben suscettibile di adempimento attraverso la prestazione di adeguati comportamenti di impegno sociale non armato”.
La sfilata delle Forze Disarmate sarebbe disarmante perché ci costringerebbe a considerare che la Repubblica non si difende solo da nemici esterni ma anche dai “nemici” interni, da quei nemici creati dall’ingiustizia sociale ed economica, da quegli ostacoli che lo Stato repubblicano è chiamato a rimuovere e a sconfiggere con la forza disarmata della solidarietà. Viva il 2 giugno; viva la Repubblica disarmata e disarmante!